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11/06/2008
Categoria: Notizie
     
LA RELAZIONE DI P. ALFREDO FERETTI AL CONVEGNO U.C.I.P.E.M.:LA FAMIGLIA, LUOGO DI BENESSERE E DI CRESCITA PER I GIOVANI O RIFUGIO NELLA PRECARIETA’?

 
P. Alfredo Feretti, nuovo Direttore del "Centro" La Famiglia di Roma


 
Un momento del Convegno UCIPEM


 
Antonella Cioccariello, nativa di Lucera e operatrice del Consultorio di Bologna


INTRODUZIONE:

Si intrecciano, nel nostro tema, piani e volti dell’universo familiare che sarebbe facile tratteggiare con pennellate forti e decise ma con il rischio di rovinare il caldo scorrere della vita, sempre più plurale, dinamico e misterioso di ogni nostra categorizzazione. Eppure è nostro compito, quasi urgenza connaturata al nostro essere seminatori e mietitori insieme nei solchi della comunicazione vera tra gli uomini, scostare delicatamente la tenda che sembra “appartare” ogni famiglia e domandare rispettosamente quale sia il volto e la qualità della loro relazione, perché in fondo è sempre lì il cuore pulsante di ogni sviluppo o di qualche possibile regressione.
In questa operazione mi sembra che dobbiamo fare attenzione ad alcune dati metodologici:
• Evitare di contrapporre la famiglia e i giovani, quasi fossero due mondi diversi, dove la famiglia è un’entità “altra” rispetto a quei giovani che dovremmo, più correttamente chiamare figli, fratelli, nipoti, cioè con il nome delle relazioni che si intessono nella famiglia stessa.
• Sapere che, interrogarci sulla vita e sulla vitalità della famiglia, non è porci di fronte ad un aspetto parziale dell’esperienza umana o ad un fattore della convivenza sociale ma è affrontare la dimensione riassuntiva della condizione di una società, la cifra della sua cultura.
• Avere sempre una grande umiltà quando si guarda il mondo giovanile. E’ facile leggere sul volto degli operatori del settore una serie di risposte pronte, di analisi dettagliate, di progetti chiari ed articolati. Credo si debba avere il coraggio di non avere risposte pronte, ma di ricominciare mille volte non su piste ogni giorno nuove ma con modalità mutate perché il protagonista cambia frequentemente.
Il vezzo di liquidare intere generazioni appiccicando loro addosso un’etichetta è vecchissimo. E’ una violenza che tutte le generazioni di giovani, ora più ora meno, hanno dovuto subire (es. Sbatti il mostro in prima pagina: fatto).
I giovani dell’inizio di questo terzo millennio non si lasciano comprendere facilmente. Sono abituati ad indossare un abito, a mostrare una facciata di consapevolezze e sicurezze; forse si sono semplicemente “adattati” ad un contesto, al complicato mondo che li circonda. Ma si tratta di un processo di adattamento di “superficie”: la loro realtà interiore è fortemente contraddittoria e reclama da parte di chi vuole interpretarla l’abbandono rapido di preconcetti e atteggiamenti pregiudiziali, pena il dissolvimento di un’immagine, quella appunto dell’universo giovanile, che è di per sé sfocata e in rapida trasformazione.

I – PERCHÉ TANTA MUCILLAGINE IN QUESTO MARE?

Certo non ci aiutano le letture spesso impietose dell’oggi entro cui le famiglie devono operare le loro scelte e nemmeno i dati della disoccupazione giovanile, così come i dati della permanenza dei giovani in famiglia fino ad età adulta.
Il rapporto Censis 2007 sulla società italiana la definiva come “mucillagine”, poltiglia indistinta.
Una società che ha perso le passioni, e che ha solo impulsi. "Abbiamo solo gente che aspira alla presenza, al suo momento di piece, come l'impulso ad esistere fosse l'unico rimasto dentro di noi. Una società mucillagine dove tutte le componenti stanno insieme perché accostate, non perché siano integrate". "La libertà diventa disponibilità di se stesso, l'etica un elenco di 128 indicatori, la scuola un parcheggio: stiamo subendo un processo di desublimazione, per cui noi al popolo, e allo sviluppo di popolo, non possiamo più credere".

Per esorcizzare questo timore di essere invischiati e soffocati in questa poltiglia indistinta occorre fare appello ad una “coscienza stretta” (per usare una contrapposizione alla “coscienza larga” citata da Leopardi), cioè ad un’assunzione di responsabilità che attinge la sua creativa dinamica dalle relazione equilibrate e mature.
Ecco perché nella declinazione dei rapporti tra famiglia e giovani (teoricamente il luogo fontale delle relazioni), viene da segnare le ombre per poterle scavalcare.
Quasi scontata l’affermazione che fonte primaria del dolore è la solitudine, l’incomprensione: che vuol dire essere fra tanti ma nessuno ti vede, come si fosse trasparenti.
Sentiamo il bisogno di legami, di relazioni in cui si dà e in cui si riceve, quasi antidoto alla sofferenza della solitudine. Non è nuova la constatazione che nel tempo presente risalta una grande insicurezza, una grande e diffusa paura.
Colpisce l’epidemia della paura, tanto che anche nella famiglia nessuno dei componenti di questa piccola società è così saldo, sicuro da poter sostenere l’insicurezza degli altri.
Questo tempo è caratterizzato dal consumo dei legami e dei sentimenti, degli affetti; non solo quelli di coppia ma anche quelli genitoriali…non esistono più i nonni?
Occorre stabilire legami, incontri in cui c’è qualcuno che ti dà e qualcuno che riceve.
Il sentimento non è un’opzione, una decorazione della vita umana, ma è qualcosa di essenziale.
L’amore, in quanto sentimento e legame è un incontro. Ma, a questo punto è necessario sottolineare come la visione romantica dell’amore ha vita corta e porta in sé la debolezza del tempo che consuma.
A questo si accompagna un generale senso di impotenza di fronte al dilagare di fenomeni che non vorresti mai vedere o non avresti mai immaginato di leggere scritti nella tua famiglia, ma che irrompono d’improvviso tra le mura dell’appartamento.
E la creatività, caratteristica tipica della tenerezza familiare, non sembra fuoriuscire per abbondanza dal torchio delle relazioni familiari, ma si concentra nel ristretto campo del profitto economico, chiave interpretativa di molte scelte vitali.
In una società in cui gli adulti hanno perso la loro autostima, prostituendosi al dio denaro e al dio sesso, il giovane “emigrante della vita”, non trova un modello di comportamento che soddisfi le sue più profonde aspirazioni. I giovani hanno così tanta vitalità che, se non trovano da creare, distruggono, perché in qualche modo la devono utilizzare. Ecco il punto nodale. La nostra epoca, immersa in problemi economici, produttivistici e consumistici, va perdendo il suo senso della vita e anche, conseguentemente, dell’autentico valore della sessualità e della relazionalità. Si constata ogni giorno come sia venuta meno una visione della persona che consenta di affrontare i problemi relativi all’esistenza della persona umana da un punto di vista globale, che tenga conto di ciò che l’uomo è, prima ancora che di ciò che l’uomo dovrebbe fare. In altri termini, oggi l’uomo ha smarrito se stesso, ha dimenticato chi è (Eugenio Fizzotti).

II - GIOVANI E VOGLIA DI PIAZZA

Il fenomeno che più caratterizza i giovani d’oggi, sia adolescenti che oltre i diciott’anni è la ricerca di spazi di vita propri, di luoghi in cui passare il tempo senza pagare pedaggi, né fisici, né di simboli, né di immagine: la banda, il muretto, la squadra, la compagnia, il gruppo musicale, la piazzetta, le vasche del corso, la spiaggia, i concerti, il pub, la discoteca, la notte, l’automobile; gli spazi virtuali, la musica, il fumetto e internet.
Sono gli spazi in cui oggi i giovani vivono, si incontrano, sognano, si relazionano, decidono, stanno bene, aspettano che passi il tempo, sballano, si scambiano esperienze e decisioni di vita, e in cui emergono anche le domande religiose. Ogni decisione deve essere “live”, in un contesto in cui pulsa l’esistenza, l’amicizia, il sentirsi vivo e libero. Non è sempre stato così. Sono quattro o cinque decenni che i giovani si costruiscono loro luoghi, si defilano dalla realtà adulta, inventano una sorta di società parallela, sicuramente non autosufficiente, ma del tutto impermeabile a presenze non gradite di adulti, si costituiscono come una questione o almeno una sottocultura.
Qui, anziché nei luoghi istituzionali a ciò dedicati, come la scuola, la parrocchia, la famiglia, i giovani pongono la forza e l’emotività necessarie per andare avanti nella vita e per decidere che farne. Per le relazioni affettive, per la decisione degli studi da compiere, per i rapporti sociali, per l’appartenenza alla Chiesa, per la dimensione religiosa spesso influiscono di più questi mondi vitali che il giovane si crea che i nostri luoghi istituzionali. Sono spazi che si ritaglia contro tutto e contro tutti: lo spazio della notte, lo spazio del tempo libero, dello stare, delle cuffie, delle amicizie, della solitudine, dell’attesa indefinita, del silenzio, della ricerca, del girovagare, del rispondere alle convocazioni. In questi spazi si formulano domande, si insinuano sogni, si accendono vocazioni, si cerca il senso e lo si elabora. Questi spazi creano al giovane una sorta di piattaforma da cui è necessario partire per qualsiasi viaggio nella vita, per qualsiasi ricerca di risposte o aiuti o prospettive. E’ in atto una forte destrutturazione dei luoghi di vita dei giovani.
La casa del senso è la vita quotidiana con il suo insieme di relazioni, esperienze affettive, attività del tempo libero. Il senso lo va scoprendo entro i luoghi dell'invenzione della speranza e della constatazione delle delusioni, nel ricamo di percorsi che inventa con la sua moto o la sua macchina, nella progettazione delle risposte alle sue aspirazioni che avviene spesso nel gruppo del muretto, nella passeggiata sul corso, ai bordi dei campi da gioco o nei parchi, sui tediosissimi spostamenti in bus per andare a scuola o al lavoro, nelle amicizie di una stagione... Qui nascono e si formulano le ricerche e i primi tentativi di risposta al vivere. Qui affondano in strati impensati della coscienza individuale i perché della vita che non risparmiano nemmeno i più superficiali e distratti. Qui, tra la sopportazione del caos del traffico e la fuga nel proprio mondo veicolato dalle cuffie si affacciano le inevitabili domande di ulteriorità.

III FAMIGLIA E GIOVANI: LA SFIDA EDUCATIVA

E’ con grande senso di responsabilità che ci mettiamo di fronte al mondo giovanile per offrirgli non briciole ma un cammino di alto profilo che non ha paura del tempo e dei fallimenti legati alla sua realizzazione. E, da questo particolare momento storico, emerge impellente un crescente bisogno di formazione delle persone e delle coscienze.
I giovani riflettono ciò che la nostra società non è stata in grado di insegnare loro e cioè la capacità di trasmettere e far apprezzare i grandi valori della vita umana, l’educazione allo sforzo, alla responsabilità, al sacrificio, all’impegno. Spesso i genitori, essendo fuori casa per lavoro tutto il giorno, cercano di non far mancare nulla ai loro figli, accontentandoli in tutto, disabituandoli all’idea di rinuncia ed alimentando la convinzione che si possa avere ogni cosa e subito. A volte tali atteggiamenti sono ulteriormente aggravati da situazioni difficili, come quelle del divorzio (il “per sempre” è davvero utopico).
E’ la continua sfida educativa che si ripropone in maniera plurale, a più livelli, puntando sulla positività dei richiami lanciati dai giovani nei modi più diversi e qualche volta più anticonformisti.
“La disponibilità degli adulti a condividere con i giovani l’apprendistato dell’esistenza e la promozione di un benessere educativo nel territorio sono due prospettive che possono facilitare a giovani e adulti un modo nuovo di vivere una cittadinanza partecipe e responsabile, e dare fiducia all’impegno di costruzione della loro specifica identità” (NPG3, p.29).
I tanti manuali di psicologia che oggi circolano ci insegnano tante cose sul ruolo della famiglia e su quali siano le strategie migliori per creare un contesto positivo e armonioso. Talvolta in maniera esasperante vengono proposte regole o consigli che non tengono conto della vera realtà quotidiana e della specificità di ogni contesto.
Basti pensare al concetto di autorità.
La parola autorità deriva dal latino augeo, che significa accresco. Avere autorità significa dunque avere il compito di accrescere o di aiutare a crescere. E' piuttosto strano il collegamento quasi obbligato tra le parole "autorità" e "comando" o "potere", quasi che chi ha ruoli di potere o di comando sia automaticamente capace di aiutare a crescere. Infatti si dice: "le autorità...", intendendo le persone di potere. Forse tale confusione è sorta nl momento in cui qualcuno si è accorto che, pur avendo il potere, non aveva più autorità e allora pensò bene di imporsi comunque. Fu allora, forse, che nacque l'autoritarismo.
Avere autorità, per i genitori che desiderano essere educatori, non significa dare ordini o decretare leggi o dire: "Fai questo perché te lo comando io", ma significa porsi al fianco dei figli per indicare loro con limpidezza un modello di vita.
Ci sono genitori che parlano e comandano in un modo e agiscono diversamente o al contrario. Essi non hanno autorità. I figli, più che ascoltarli, li temono. Ci sono invece genitori che non si preoccupano tanto di fare sermoni o di dare istruzioni, quanto di essere coerenti con quel poco che dicono. Essi hanno autorità. Una persona esercita vera autorità quando è di valore il suo modo di vivere. La credibilità educativa deriva dalla coerenza della vita.
Oggi ci si lamenta spesso che non vi è più rispetto per l'autorità. I giovani, si dice, non vogliono più saperne di autorità. Siamo al solito equivoco. Quale autorità rifiutano? E che cosa cercano in tale rifiuto? E' un paradosso.
I giovani e i figli rifiutano, più o meno inconsciamente, il vuoto, l'etichetta, ma sono assetati di valori; basta saperglieli indicare. Ma non immaginiamo che tutto fili liscio. I nostri figli sono bombardati continuamente da valori fasulli, però la loro purezza di vita non consente di riconoscere l'inganno. I genitori passano dei momenti angosciosi. Vedono i loro figli ubbidire solamente all'amico o all'allenatore o alla moda e allontanarsi da loro. Cosa fare? Continuare nella testimonianza dei valori praticati ed attendere la vera maturazione del figlio. Imporsi ad ogni costo potrebbe scatenare reazioni contrarie.
A volte ci sono casi in cui bisogna far valere l'autorità. Capita quando si deve impostare uno stile di vita familiare in cui fare confluire tute le esigenze delle persone conviventi. E' fatale che ci sia qualche contrasti e che si debba alzare la voce per dirimere qualche questione. quando la via d'uscita pare non esserci, ci sia il richiamo alla necessità del sacrificio che, a turno, occorre consumare per poter essere in regola con le esigenze della vita comunitaria. Se autorità significa aiutare a crescere, significa anche servire. E questo, a volte, può costare più del previsto. I figli hanno un fiuto particolare per accorgersene.
• Un vero clima educativo
Da qualche tempo a questa parte gli studiosi di cose umane, anziché fornirci di consigli pratici spiccioli, stanno insistendo sugli atteggiamenti educativi, sulle situazioni educative. Sono diventati insomma più pignoli nel descrivere i tratti essenziali dell'opera educativa, per così dire, dal di dentro.
La famiglia è luogo naturale di crescita umana, ma è luogo ideale se in essa si trovano tutte quelle condizioni capaci di sviluppare le potenzialità dell'individuo. Queste condizioni non vanno create artificialmente, ma devono costituire quasi naturalmente il clima adatto. Non si tratta insomma di recitare la parte dell'educatore, ma di essere educatori.
• Gli elementi del clima educativo
Gli elementi che creano clima educativo sono: l'intelligenza, l'accettazione reciproca, la libertà, l'amore.
L'intelligenza educativa non ha niente a che fare con titoli di studio (anche se questi possono aiutare). Essa è la disponibilità profonda a capire le caratteristiche personali dei figli, ad assecondarle, ad orientarle. L'intelligenza educativa esige da parte dei genitori una particolare attitudine al dialogo con i figli, un mettersi continuamente al loro piano, un'attenzione alle loro tappe di crescita, uno spirito di adattamento alle situazioni che mutano. E' un lavoro di costante conversione alle esigenze dei figli.
Un'atmosfera educativa inquinata da grettezze, da vista corta, da piccineria rappresenta un ostacolo per la crescita della persona.
Ciò accade ad esempio quando i genitori usano i figli per proiettare in essi le loro aspirazioni deluse o non realizzate. Ci sono tanti figli che rivelano nel loro modo di essere l'impronta dei genitori, i quali hanno quasi creato un doppione di se stessi.
L'accettazione reciproca: per i genitori è prima di tutto accettazione fra loro. La grandezza, come dicono i saggi, non consiste nell'essere questo o quello, ma nell'essere se stessi, accettandosi per ciò che si è puntato tutto su ciò che si può diventare. I figli, fin da piccoli, avvertono attraverso emozioni e sensazioni se i loro genitori stanno bene insieme, se si apprezzano, se si stimano, se funzionano, pur con tutti i loro difetti. E questo dà loro una sensazione di sicurezza. Di qui a sentirsi essi stessi accettati, il passo è breve; e così i figli cominciano a gustare di esistere, di esistere per qualcuno, di contare qualcosa, di contare perché voluti. In tal modo, dalla semplice sensazione di essere accettati per quello che sono, belli o meno, maschi o femmine, sani o meno, comincia a germogliare in loro quel meraviglioso sentimento di fiducia nella vita su cui dovranno costruire pian piano la loro personale avventura.. In caso contrario cominceranno ad impaurirsi, a temere d'essere di peso, a sentirsi estranei. Oggi si parla tanto di emarginazione; questa è proprio la parola giusta. Quando non si accetta pienamente un figlio, lo si emargina. Una famiglia in cui manca l'accettazione, è una famiglia nella quale ci si sente insicuri, in cui si diventa aggressivi (si vuole cioè imporre l'attenzione verso di sé), in cui si sta a fatica e in cui si cresce male.
Altri aspetti importanti da favorire - e che richiedono in primis una solida alleanza e complicità coniugale - sono: avere una chiara separazione tra le generazioni che spinga verso un confronto costruttivo e critico tra i diversi modi di pensare e abitudini di vita: passato, presente e futuro dovranno essere un patrimonio comune, senza crisi nostalgiche al mondo di ieri o eccessive fughe fantastiche verso un domani retoricamente migliore; favorire ruoli e alleanze rinegoziabili tra i vari componenti senza che queste creino turbamento negli altri membri della famiglia; creare le condizioni per coinvolgersi tutti in momenti di gioco collettivo che permettano di scoprire alcune parti di sé talvolta nascoste agli altri membri; saper manifestare ai figli la complicità affettiva dei genitori senza imbarazzi o falsi pudori; permettere una continua apertura con la realtà esterna e favorire gli scambi comunicativi con la società. Solo in questo modo si favorirà la tolleranza alla diversità in tutti i suoi aspetti, l’accettazione dei propri limiti e l’importanza della socializzazione.

La libertà: è saper fare con fantasia ciò che ci compete, è sapersi muovere con intelligenza nell'ambito dei valori. La libertà, come si dice spesso non è poter fare ciò che si vuole, non è un meccanismo istintivo. E' razionalità di una scelta. La vera libertà è libertà dal male, non quella di fare il male. Nella gara per diventare uomini si vince solo se si punta al traguardo del bene, con fantasia. Quali sono le conseguenze sul piano educativo?
Educare nella libertà significa educare al senso dei valori, al rispetto dei valori; significa aiutare il figlio a muoversi nella direzione di essi. Significa aiutare i figli a scoprirli da soli, anziché fornirglieli già pronti. Creare un clima di libertà può significare, specie oggi, allenare al coraggio di essere originali in un mondo di uomini sempre più standardizzati, significa abitare i figli a vincere la pigrizia mentale per domandarsi continuamente il perché delle proprie scelte. Dire: "Fai quello che ti pare", per scaricare la propria responsabilità, non è atteggiamento educativo. Il Vangelo ci dice: "La verità vi farà liberi", frase che tradotta pedagogicamente può significare di presentare ai figli dei modelli veritieri e reali di comportamento. Una famiglia malata di sotterfugi, di intrallazzi, di ambiguità, di falsità, di incoerenza è una famiglia in cui lo spirito di libertà non c'é e nella quale quindi si stenta a crescere.
L'amore: in campo educativo è una riscoperta. Studiosi sempre in maggior numero indicano l'amore come l'atteggiamento educativo principale. Chi di noi non ha sentito parlare di carenze affettive come cause di crescite fallimentari o quasi? Tutti conosciamo l'importanza dell'affetto dei genitori nei primi tempi della vita, quando cioè ancora non si possono are messaggi educativi parlati, ma tutto avviene a livello preverbale; ebbene, gli studiosi dicono che sono determinanti questi momenti iniziali per la strutturazione della personalità futura del figlio. L'educazione non è un fatto di parole o di tecnica, ma un fatto di amore. L'uomo riuscito è quello che sa amare, quello che sa creare una comunicazione interpersonale autentica.
Creare in una famiglia un clima di amore significa adoperarsi a fare spazio all'altro, ai figli. L'amore non si dimostra con teorie, ma si contagia, si offre, si mostra. Esso è l'unica realtà che si trova donandola.
Una atmosfera familiare in cui si coltivano più o meno sfacciatamente l'intolleranza, il calcolo, l'egoismo, indubbiamente non favorisce la crescita umana.

• La famiglia come laboratorio di relazioni e scuola di affettività

Mai come oggi sembra che il problema dell’affettività (nel mondo giovanile e non solo), si ponga nel primo significato, quello dell’essere toccati da “qualcosa”. Tanto che questa generazione viene caratterizzata come generazione di individui anaffettivi, cioè privi di capacità di patire e di prendersi anche cura in maniera forte ed elaborata dell’altro.
Chiediamoci: da cosa vengono colpiti oggi i ragazzi? Cosa li appassiona? Hanno delle passioni? O sono passioni esterne, costruite, gestite dal sistema dei mass media, non elaborate? Di che cosa si prendono cura? Ma gli adulti, di che cosa si prendono cura?
E’ difficile capire i giovani se non si capiscono gli adulti, non si capisce l’anaffettività dei giovani senza capire gli adulti. Dentro e fuori la famiglia il tema dominante riguardo i giovani è quello della sicurezza, si vuole essere sicuri, immunizzarsi, creare delle barriere per non fare lo sforzo di entrare in una relazione di cura reciproca. Quando tu cerchi la sicurezza vuol dire che non vuoi prenderti cura dei problemi, che il problema del patire non ce l’hai più e vuoi essere immune. Cosa significa essere immune?
Essere immuni vuol dire rifiutare il munus, il dovere reciproco. Qual è il contrario dell’immunità? E’ la comunità, il contrario dell’immunus è il comunus, essere debitori gli uni nei confronti degli altri, prendersi cura gli uni degli altri, fare comunità. Pensate a queste due immagini: immunità e comunità e applicatele al mondo delle parrocchie, dei cristiani e delle relazioni con gli altri cristiani per vedere la potenza estrema che esse danno. Siamo comunità o immunità? Ci sentiamo in debito nei confronti degli altri? Ci sentiamo comunità coi figli degli altri? Ci sentiamo in dovere di educarli, di prendercene cura o siamo abbastanza immuni?

Si deve scegliere lo stile della “missione” del genitore e della famiglia che, a mio avviso deve avere un carattere artigianale, frutto di laboratori piccoli, di ateliers, di botteghe…
L’artigianato (per usare un linguaggio rinascimentale) è più legato alle arti minori (es. fornai) piuttosto che alle arti maggiori (es. retorica…) con propri ritmi e relazioni che non sono quelle industriali.
L’artigianato domanda pazienza, tempo, azione di rifinitura, cesello, stagionatura…
Domanda formazione di apprendisti, poco scarto.
E quando non si è abituati a questo tipo di disciplina si cercano sicurezze in altre metodologie.
Non ci si improvvisa educatori: si richiede una scuola, una costante verifica e un’adeguata consapevolezza delle proprie responsabilità. E’ possibile essere genitori senza perdere la gioia della vita di coppia, anzi rafforzandola?

• Di fronte ai dati di fatto

Sono sempre più numerosi i giovani adulti, impegnati nel lavoro, economicamente indipendenti, adulti a tutti gli effetti, che non trovano il coraggio di andarsene da casa per costruirsi una vita propria. Oppure, anche quando si sono sposati, non sono capaci di rompere il "cordone ombelicale" che li mantiene uniti alla famiglia di origine.
• Fino a che punto si tratta di situazioni di normale difficoltà a crescere, a conquistare definitivamente la propria autonomia e quando invece si corre il rischio di chiudersi in una condizione che può diventare patologica?
• Cosa può fare un genitore per aiutare il figlio a diventare un adulto autonomo?
• Come può un figlio aiutarsi da sé a "spiccare il volo"?
• Come si può superare insieme felicemente, genitori e figli, questo importantissimo, ma difficile, stadio di crescita?

• Alla luce di un’inchiesta
Come è noto, l'Italia si distingue dal resto dei paesi occidentali avanzati non solo per il numero particolarmente alto di disoccupati giovani (soprattutto al sud), ma per il tasso elevatissimo di giovani, di entrambi i sessi, che vivono in famiglia con i genitori. È il fenomeno della famiglia lunga, in cui i figli restano in casa fino a 30-35 anni, e anche oltre, mantenendo forti legami di dipendenza affettiva e/o economica. In effetti, secondo una recente indagine, quasi la metà dei giovani maschi tra i 25 e i 29 anni e più di un quarto delle giovani donne vivono nella famiglia d'origine, spesso anche quando hanno un lavoro stabile; e quasi tutti i giovani tra il 25 e i 29 anni che sono usciti dalla casa dei genitori lo hanno fatto per sposarsi (l'indagine è quella dell'istituto IARD di Milano condotta dai sociologi Alessandro Cavalli, Antonio de Lillo e coll.).
Per spiegare questo primato italiano i sociologi hanno avanzato almeno due teorie, tra loro non incompatibili. Una mette l'accento sui condizionamenti socio-economici: oltre all'alto tasso di disoccupazione giovanile, in Italia scarseggiano le abitazioni economicamente accessibili ai giovani, e l'organizzazione scolastica è carente di abitazioni per gli studenti, mentre non pone limiti temporali agli studi universitari. Secondo il sociologo Giovanni Battista Sgritta, ad esempio, la grande disponibilità dei genitori a farsi carico dei figli svolge una funzione di ammortizzatore sociale: le tensioni sociali prodotte dalla disoccupazione dei giovani vengono scaricate sulla famiglia, mentre la finanza pubblica può disinteressarsi del problema.
Un'altra tesi mette invece l'accento sui fattori culturali: la famiglia lunga sarebbe l'effetto del familismo della cultura italiana, e in modo doppio, in quanto al familismo tradizionale si sarebbe aggiunto un nuovo familismo, vale a dire un atteggiamento iperprotettivo dei genitori nei confronti dei figli, a cui peraltro si lascerebbero ampi spazi di autonomia e di libertà in casa.
Alcuni studi psicologici, invece, focalizzano l'attenzione sull'intero processo di transizione all'età adulta, rilevano la diminuita pressione sociale sui modi e tempi di raggiungimento delle principali tappe maturative e la generale tendenza, da parte dei giovani, a dilazionare i tempi delle scelte definitive e dell'assunzione di nuove responsabilità.
Inoltre psicologi come Vittorio Cigoli ed Eugenia Scabini, muovendo dall'attenzione alle dinamiche intrafamiliari, hanno messo in luce la rete di reciproci bisogni di genitori e figli che sembra favorire l'allungamento della permanenza dei figli in famiglia, rendendo difficile il loro distacco. Se da una parte i figli non sembrano motivati a lasciare il nido domestico, dall'altra i genitori tendono a trattenere i figli, anche se ormai grandi, per perpetuare il proprio ruolo genitoriale e le autogratificazioni per aver dato ai figli più di quanto essi stessi abbiano ricevuto in passato.
Questa ricerca di psicologia sociale, tesa ad integrare lo studio dei processi cognitivi e del contesto culturale, esamina i fattori psicologico-culturali che spingono i giovani a restare in casa. Sono state di fatto indagate tanto le rappresentazioni mentali di giovani (cioè, i valori, i giudizi, gli ideali astratti, così come le anticipazioni sulla propria futura uscita), quanto gli aspetti del contesto familiare (aspettative dei genitori, relazioni tra adolescenti e genitori, status socio-culturale).
Il risultato globale tende a confermare l'importanza dei fattori esaminati. Tra i giovani intervistati emerge soprattutto un atteggiamento rinviante o prudente relativo alla progettazione della futura autonomia abitativa.
In effetti, quando l'ipotesi di andarsene di casa si avvicina alla realtà, allora essa si carica di aspetti ambivalenti, indefiniti e poco strutturati. Opera nella maggioranza il bisogno di un guscio: non si sentono pronti a progettare la vita da soli e ad aspirare ad una completa autonomia, se non come fatto meramente immaginario.
Se per un verso i giovani paiono non essere molto inclini ad accelerare l'uscita da casa, essi attribuiscono ai loro genitori ancor meno volontà nel favorire la loro uscita. La maggioranza degli studenti, infatti, ritiene che, per i genitori, l'uscita da casa non sia un obiettivo su cui doversi impegnare nel prossimo futuro. Inoltre, l'uscita per matrimonio e non per indipendenza viene percepita dai giovani come l'attesa più agognata dai genitori, in dissenso in molti casi con la propria intenzione.
Non sembra pertanto che possa provenire dalla famiglia d'origine un rinforzo alla motivazione all'uscita, se non in una versione tradizionalista (in senso borghese) che vede positivamente l'uscita dopo che siano state raggiunte solide basi a livello socio-economico e quando sia causata dal matrimonio. Questa visione pare scontata per noi italiani con una tradizione di grande valorizzazione dei legami familiari, ma non sembra condivisa in altri paesi occidentali in cui l'uscita è maggiormente associata all'ingresso all'università, all'inizio del lavoro o, comunque, alla fine degli studi.
La maggioranza degli intervistati ritiene che il modo di uscita ideale per i giovani di entrambi i sessi sia quello alternativo al matrimonio, cioè di vivere da soli, con amici, ecc. Ma di fatto la ricerca mostra che quando i giovani passano ad esprimere dei giudizi sui comportamenti altrui, il loro modo di vedere risulta più simile a quello in apparenza così diverso dal loro dei genitori. Infatti, contraddicendo in parte il loro ideali, gli studenti giudicano più positivamente i/le ragazzi/e che lasciano la casa genitoriale quando si sposano, piuttosto che quelli che vanno a vivere da soli o con amici (queste modalità sono valutate positivamente ma in misura minore del matrimonio). C'è quindi una certa discrasia tra gli ideali e i giudizi sociali segno che gli ideali sono emancipazionisti, ma la pratica sociale effettiva è molto più ispirata alla tradizione.
In sintesi, mentre l'insoddisfazione verso il rapporto con i genitori è associata strettamente al desiderio di uscire da casa e all'aspirazione a lasciarla in futuro, il contrario non è sempre vero, cioè l'essere soddisfatti del rapporto con i genitori non è associato in modo significativo con la bassa o alta aspirazione a lasciare la casa dei genitori. Difatti, le positive relazioni con i genitori possono favorire il processo di autonomizzazione dei figli rendendoli sicuri di sé, così come possono ostacolare tale processo, in quanto possono originare, oltre ad evidenti effetti positivi, anche dei problemi di eccessiva vicinanza, benessere e comodità.
In conclusione si può affermare che da fenomeno trascurato, a livello non solo scientifico ma anche politico, la dilazione dell'uscita dei giovani dalla casa dei genitori assurge a tema rappresentativo della realtà giovanile, realtà che appare eccessivamente sospesa tra passato e futuro, tra infanzia e maturità. E, come tale, necessiterebbe certamente di maggiori investimenti per la ricerca, l'intervento sociale e la valutazione della sua efficacia.
• Una risposta vitale
“La cronaca quotidiana mostra che la società del nostro tempo ha di fronte molteplici emergenze etiche e sociali in grado di minare la sua stabilità e di compromettere seriamente il suo futuro. Particolarmente attuale è la questione antropologica, che abbraccia il rispetto della vita umana e l’attenzione da prestare alle esigenze della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Come è stato più volte ribadito, non si tratta di valori e principi solo "cattolici", ma di valori umani comuni da difendere e tutelare, come la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato. Che dire, poi, dei problemi relativi al lavoro in rapporto alla famiglia e ai giovani? Quando la precarietà del lavoro non permette ai giovani di costruire una loro famiglia, lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso” (Benedetto XVI).
Quante storie ci sono raccontate, colme di conquiste e di sorrisi o cosparse di frustrazioni a cui il nostro piccolo mondo artigianale non sa dare vere risposte. Se provassimo anche solo a fare una carrellata dei film usciti nelle sale in questi ultimi anni, film italiani, specchio di un mondo giovanile nostrano, tanto vicino quanto invisibile, potrebbe toccare, in modalità diversa, i volti della precarietà di sentimenti e di risposte. Per non parlare di proposte assurde che vengono dal mondo politico che vorrebbe spolpare i giovani di “assurdi”sogni per metterli sul piano del pragmatismo sinonimo di meritocrazia o, peggio, di selezione “naturale”.
La sfida che ci si presenta per offrire la possibilità di stare in piedi da soli potrebbe seguire alcune piste di azione concreta:
Nel cammino di maturazione in cui s’intrecciano fattori perso¬nali e comunitari, il lieto fine - dicevamo - è camminare verso una piena maturità umana.
Per raggiungere questo obiettivo, possiamo individuare quattro principali direzioni:

1) Riaffermare il primato dell'essere sulla attività, sul fare e anche sull'avere, privilegiando quei momenti in cui il giovane viene messo a nudo nel suo essere più profondo di fronte alle sfide del presente.
La tendenza all'emulazione, al migliorare sempre di più, al fare più strada, ad avere più successo, sono caratteristiche di molti giovani. Si affrontano molti sacrifici pur di raggiungere gradini più alti nel consesso sociale in cui si è inseriti.
Noi dobbiamo riaffermare, senza scoraggiare il lato positivo di questa ricerca, il valore dell'essere, della propria umanità e creare occasioni sempre più frequenti di ritrovarsi a questo livello.
È necessario riaffermare che l’uomo è mistero a se stesso e si può spiegare solo facendo riferimento al suo essere creatura. Se non usciamo da una concezione prometeica dell’uomo, priva di ogni riferimento al suo Creatore, cadiamo nella tentazione diabolica dell’uomo di farsi egli stesso non immagine di Dio ma uguale a Dio.
Provocatoriamente ci domandiamo: Siamo pesci ristretti in un angusto per quanto ben attrezzato acquario? A giudicare dal nostro sentire, dalle cose che ci fanno soffrire o sperare sembrerebbe proprio di sì. Quante volte andiamo nel tempio e ne facciamo un mercato perché incapaci di trovarvi la gloria che lo abita, la Sua presenza? Privo di questa presenza il tempio della vita dell’uomo diventerebbe una spelonca di ladri, magari di ladri in giacca e cravatta…ma pur sempre tali!
Avvertire la presenza è solo una questione di risveglio, di riconoscimento. La presenza è presente! Anche se dovessi fuggire nelle profondità del mare o salire in cielo, la troverei lì.
Spesso non ci accorgiamo di possedere già ciò che desideriamo, di avere già sconfitto ciò che ci fa paura. Di noi è scritto:”…voi siete dei!…”. Lottare, soffrire o essere a fianco di chi lotta e soffre è vivere nella consapevolezza della Presenza che fa della mia esistenza, come dell’universo intero, il tempio della sua gloria.

2) La seconda direzione da intraprendere va nel senso dell’accettazione del proprio limite, della finitudine, della sconfitta e della sofferenza nella vita umana come via maestra per il raggiungimento di una compiuta realizzazione di sé. “Questo significa che è necessario contrastare la tendenza presente nell’attuale educazione delle nuove generazioni alla soddisfazione della quasi totalità dei desideri degli educandi, che si manifesta nell’assenza di un sistema di regole e di norme che ne limitino e selezionino l’espressione, nella fuga dalla propria debolezza e dalle proprie imperfezioni alla ricerca di una immagine soddisfacente di sé virtuale e perciò illusoria, nella non-accettazione della rinuncia, della sofferenza e della fatica come porta stretta attraverso cui conquistare una più evoluta condizione esistenziale e personale”. (Mario Pollo, Note di Pastorale Giovanile, IV, pag. 4)

3) La terza direzione è verso una riappropriazione della propria coscienza: di fronte alla mancanza di autonomia personale, la nostra azione è tesa a facilitare la formazione di un “uomo in piedi”, pronto alla solitudine delle proprie scelte.
“Sii brutto anatroccolo e soffri di dover stare
in un nido che non riconosci e non ti riconosce.
Sii l’esule ma sii orgoglioso di non amare questo cibo straniero.
Proteggi l’anima: qualcosa dentro di te sta affinandosi
e diventerà presto lucido e deciso.
Sii il naufrago, assapora la solitudine
ma anche la vita che hai assaporato, preservala.
Non aver paura del banale e del sublime ma crea”.

4) L’importanza delle relazioni con gli altri è l’altra direzione da privilegiare. Le tematiche dell’amicizia, dell’affettività non possono essere affrontate con superficialità e sufficienza; esse sono la base della costruzione della personalità.
Favorire ambienti dove fioriscono le più belle virtù non sono obiettivi demodés ma il puntare in alto verso un apprendimento dell’arte di amare, indispensabili al fiorire di veri adulti nella fede.


CONCLUSIONE
Alcuni anni fa, mi trovavo in un campo profughi della ex Jugoslavia, per una operazione umanitaria. Un mattino, il rumore assordante di motori in movimento mi fanno correre verso un luogo più affollato di altri. Gli uomini erano stati caricati su dei pullman per essere trasferiti in Turchia, mentre le donne rimanevano nel campo. La speranza era di raggiungerli in un secondo tempo.
Ai piedi di uno di questi pullman tre ragazze abbracciate guardano verso l’interno. Una di queste ha una chitarra in mano e sembra voler suonare. Guarda in alto, e un ragazzo, al di la del vetro del finestrino, mette le dita su una chitarra che non ha. E la ragazza lo imita e fa qualche accordo e accenna una canzone. Era il segno del loro amore.
Forse è la parabola dei genitori e dei figli. La chitarra ce l’hanno loro. Forse tu puoi solo dire come mettere le dita per fare gli accordi. Ma poi la canzone è sua, la voce è sua. Ma è anche il frutto che tu parti e lo lasci, senza lasciarlo, cantare la sua canzone.
Possiamo terminare con l’aforisma diventato ormai famoso di Khaled Hosseini nel suo libro “Il cacciatore di aquiloni”:
I figli non sono album da colorare come piace a noi.

Diventare genitori: un dato scontato?
Prendiamo una pagina di Pierre Teilhard de Chardin sulla felicità:
Parla di tre categorie di persone che possiamo paragonare a tre categorie di coppia:

Pessimisti: la vita coniugale è uno scacco. Non c’è niente da fare. Anche la tenerezza è un fatto del passato che non ritorna più.

Mediocri: sono coloro che si accontentano di vivere la loro coniugalità come esperienza dell’attimo presente. Sono bontemponi o gaudenti, che non rinunciano a niente e si buttano sul consumo. La tenerezza per costoro è puro sentimentalismo passeggero.

Coraggiosi: La vita è una salita e una conquista. Anzi è una scoperta a cui aprirsi con coraggio e stupore. E’ exstasis in cui la tenerezza ha un ruolo fondamentale da cercare con passione.
“Vogliamo essere felici? Lasciamo gli stanchi ed i pessimisti scivolare indietro. Lasciamo i gaudenti e i mediocri sdraiarsi borghesemente sul pendio. Ed aggreghiamoci senza esitazione al gruppo di coloro che vogliono arrischiare la scalata, sino all’ultima vetta. In avanti”. (P.Teilhard de Chardin).




     
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